Isabel Allende e la sua Ayahuasca

Isabel Allende, una delle voci più importanti della narrativa contemporanea, ci racconta la sua esperienza con l’Ayahuasca durante un periodo di blocco dello scrittore.

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Isabel Allende nasce a Lima, in Perù, nel 1942 ma vive in Cile fino al 1973 dove lavora come giornalista. Dopo il golpe di Pinochet si stabilisce in Venezuela e poi negli Stati Uniti.

Nel suo libro “La suma de los dias” (in Italia “La somma dei giorni“, Feltrinelli 2008) racconta la sua prima esperienza con l’Ayahuasca in un periodo in cui si sentiva “incapace di far volare la fantasia” e sentiva il bisogno di “tornare ad essere la bambina che ero stata una volta […] dovevo abbattere le mie difese razionali e aprire la mente e il cuore”. Ecco allora come ci racconta la sua esperienza molto forte, a giudicare da quanto riportato, nella traduzione di Elena Riverani.

Magia per i nipoti

Willi non volle che mi avventurassi da sola in questa esperienza e, come in molte occasioni della nostra vita insieme, mi accompagnò ad occhi chiusi. Bevemmo un tè scuro dal sapore ripugnante, appena un terzo della tazza, e così amaro e fetido che era quasi impossibile inghiottire. Forse io ho una breccia nella corteccia cerebrale – più o meno sono sempre un po’ fuori di testa – perché l’Ayahuasca, che ad altri da uno spintone verso il mondo degli spiriti, mi lanciò con un solo calcio così lontano che non tornai se non due giorni dopo.

Dopo quindici minuti dall’averla assunta, mi mancò l’equilibrio e mi distesi per terra, da dove non riuscii più a muovermi. Mi spaventai e chiamai Willie, che si trascinò a fatica vicino a me, e mi aggrappai alla sua mano come a un salvagente durante la peggiore delle tempeste immaginabili. Non riuscivo a parlare né ad aprire gli occhi. Mi persi in un turbinio di figure geometriche e colori brillanti che all’inizio risultarono affascinanti e in seguito si fecero angoscianti. Sentii che mi separavo dal corpo, il cuore mi scoppiava e sprofondavo in una terribile angoscia. Tornai allora ad essere la bambina intrappolata tra i demoni degli specchi e le anime delle tende.

Pochi istanti dopo i colori sfumarono e apparve la pietra nera che giaceva quasi dimenticata nel mio petto, minacciosa come alcune montagne della Bolivia. Capii che dovevo rimuoverla dal mio cammino o sarei morta. Cercai di scalarla ma era scivolosa, tentai di aggirarla ma era immensa, iniziai a staccarne un pezzo alla volta ma il lavoro non aveva fine e nel frattempo aumentava la mia certezza che la roccia contenesse tutta la malvagità del mondo, che fosse piena di demoni. Non so per quanto rimasi così; in quello stato il tempo non ha niente a che vedere con quello degli orologi. D’improvviso avvertii una scossa elettrica di energia, diedi un calcio incredibile per terra e mi alzai sulla roccia. Ritornai per un istante nel mio corpo; piegata dal disgusto, cercai a tentoni il secchio che avevo lasciato a portata di mano e vomitai bile. Nausea, sete, sabbia in bocca, paralisi. Percepii, o compresi ciò che intendeva mia nonna: lo spazio è pieno di presenze e tutto accade simultaneamente. Vedevo immagini sovrapposte e trasparenti, come quelle stampate su fogli di pellicola nei libri di scienza.Vagai per giardini in cui crescevano piante minacciose dalle foglie carnose, grandi funghi che trasudavano veleno, fiori malvagi. Vidi una bambina di quattro anni, rannicchiata, atterrita; allungai la mano per farla alzare ed ero io. Diverse epoche e persone passavano da un’immagine all’altra. Incontrai me stessa in diversi momenti e in altre vite. Conobbi una vecchia con i capelli grigi, piccola, ma bella dritta e con gli occhi splendenti; potrei essere io tra qualche anno, ma non ne sono certa, perché l’anziana si trovava in mezzo ad una folla confusa.

Ben presto quell’universo popolato si dissolse ed entrai in uno spazio bianco e silenzioso. Fluttuavo nell’aria, ero un’Aquila dalle grandi ali aperte, sostenuta dalla brezza, vedevo il mondo dall’alto, libera, potente, solitaria, forte, indifferente. Il grande uccello rimase li a lungo e poi si librò verso un altro luogo, ancora più glorioso, in cui scomparve la forma e non rimase che lo spirito. Scomparvero l’aquila, i ricordi e i sentimenti; io non c’ero più, mi ero dissolta nel silenzio. Se avessi avuto la benché minima coscienza o desiderio ti avrei cercato, Paula. Molto dopo vidi un piccolo cerchio, una specie di moneta d’argento, e verso quel punto mi diressi come una freccia, penetrai nel buco e mi ritrovai senza sforzo in un vuoto assoluto, un grigio traslucido e profondo. Non c’era sensazione, spirito, né la benché minima coscienza individuale; ciononostante, sentivo una presenza divina e assoluta. Ero all’interno della dea. Era la morte o la gloria della quale parlano i profeti. Se morire è così, (NdA: Parla alla figlia Paula morta anni prima) tu ora ti trovi in una dimensione irraggiungibile ed è assurdo immaginare che mi accompagni nella vita quotidiana o mi aiuti nelle mie faccende, ambizioni, paure e vanità.

Mille anni dopo feci ritorno, come un’esausta pellegrina, alla realtà conosciuta grazie allo stesso cammino che avevo percorso, procedendo a ritroso: attraversai la piccola luna d’argento, fluttuai nello spazio dell’aquila, scesi verso il cielo bianco, mi immersi in immagini psichedeliche e infine entrai nel mio povero corpo, che da due giorni era molto malato, e che Willi accudiva iniziando a temere di aver perso sua moglie nel mondo degli spiriti.

[…] Il terzo giorno, ormai cosciente, lo passai stesa nel mio letto a rivivere ogni istante di quello straordinario viaggio.
[…] L’avventura con la droga mi pervase di qualcosa che posso solo definire amore, un’impressione di unità: mi dissolsi nel divino, sentivo che non c’era divisione tra me e il resto di ciò che esiste, tutto era luce e silenzio.
[…] Di tutte le avventure della mia agitata esistenza, l’unica che può essere paragonata a questa visita alla dimensione degli sciamani fu la tua morte, figlia mia. In entrambe le occasioni accadde qualcosa di inspiegabile e di profondo che mi trasformò. Non tornai più a essere la stessa dopo la tua ultima notte e dopo aver bevuto quella potente pozione persi la paura della morte e sperimentai l’eternità dello spirito.

Conclusione

Il racconto della Allende riesce a descrivere sia le fasi che il contenuto del lavoro fatto con l’Ayahuasca. A partire dall’approccio con cui si è affacciata all’esperienza, con totale apertura e fiducia, passando per le visioni del proprio vissuto e della propria sofferenza, planando e fluttuando infine nel candore del divino raccontandoci così – nel suo stile scorrevole – una “tipicamente unica” esperienza di Ayahuasca.

Riferimenti